Helen Macdonald scrittrice, naturalista e ricercatrice del dipartimento di Storia e filosofia della scienza di Cambridge ha scritto un piccolo racconto che mi ha particolarmente colpito per la sua freschezza ma soprattutto per il suo significato.
Si tratta presumibilmente di una cronaca naturalistica ma è anche una potente metafora del rapporto che l’individuo ha o che potrebbe avere o che desidererebbe avere con sé stesso, con la sua vita istintuale, con il suo Sé insomma.
Di H. Macdonald:
“A volte il mondo ti regala dei piccoli miracoli. Era una nuvolosa mattina di inverno di qualche anno fa, e io ero molto triste.
Me ne stavo seduta su un gradino di cemento vicino all’argine, a fissare le acque grigie e vorticose del fiume, proprio come la vita, pensavo, quando mi accorgo di una femmina di cigno reale che ciondola verso di me sulle sue gambette nere, buttando in dentro le coriacee, zampe palmate.
Non mi erano mai piaciuti i cigni.
Mezzo addomesticati, mezzo selvatici, familiari e estranei allo stesso tempo.
Da bambina ero sempre nervosa se mentre davamo da mangiare alle anatre, arrivava un cigno. Soffiava, ritraeva le ali con fare minaccioso e mi strappava il pane dalle mani. I cigni non hanno niente a che fare con le anatre.
Le anatre sono innocue. I cigni possono spezzarti un braccio con un colpo d’ala, mi sono detta, un po’ agitata, guardando il cigno venire verso di me e ripensando a tutti gli ammonimenti della mia infanzia.
Sono pericolosi. Sono aggressivi. Possono farti male. Possono ucciderti, anche. Ehi, aspetta un attimo, ho pensato divertita. Non sono più una bambina. Sopravvivrò, tutto sommato. Anche se questo cigno dovesse decidere di attaccarmi.
Il cigno aveva un collo flessuoso, un occhio nero, e una vacua, imperscrutabile regalità.
Mi aspettavo che smettesse di camminare. Mi aspettavo che si fermasse.
Invece ha continuato ad avanzare.
Ho sentito un brivido che era per metà di nervosismo e per metà di stupore.
Ha puntato dritto al gradino dov’ero seduta, con la testa che torreggiava sulla mia. E poi, all’improvviso, si sedette, esattamente accanto a me, il suo corpo parallelo al mio, così vicino che le piume dell’ala mi spolveravano la coscia. Questo cigno era un misterioso coincidere di aria e solidità.
Tozzo in basso. Profilo di piume. Perle d’acqua che gli scivolano addosso. Curve di cheratina, vessilli spessi e arricciati come sculture di carta.
E poi il corpo: i cigni non sono eterei ed evanescenti. Aveva più o meno le dimensioni di un cane. Ero così stupefatta da dimenticarmi di aver paura. Da dimenticarmi quasi di respirare. Ha ripiegato la testa di lato e indietro nel rifugio delle spalle, e si è addormentato.
Cosa? Era assurdo. Era meraviglioso. Sono rimasta seduta una ventina di minuti, lì, accanto al cigno dormiente, guardando un fiume che sembrava molto meno freddo di prima, e non mi sentivo più triste, non mi sentivo più sola, anche dopo che il cigno si è svegliato, dopo che è tornato con calma in acqua, dopo che è salpato verso valle e io ho preso la via di casa.”