A vederli così nella realtà della vita sembrerebbero essere persone diverse.

Ed è difficile credere che entrambi , la vittima ed il suo carnefice . sono invece presenti come figure simboliche in entrambi delle rispettive psiche.

Due personaggi della stessa tragedia umana.

Il carnefice odia intensamente parti di sè ferocemente represse , tanto ferocemente represse da incarnare queste parti di sé  nella sua vittima.

Incarnando perciò in essa le proprie proiezioni.

Lo stesso accade alla vittima.

La quale incarna nel suo carnefice quella parte di sé che pur ferocemente la reprime e la castra.

Essa si identifica nelle parti ferocemente represse di sé proiettando , lontano da sé, nel suo carnefice reale il carnefice interiore.

Nel corso della infanzia la psiche infantile introietta la figura dell’aggressore , espresso dall’ambiente parentale infantile , il quale  aggressore impedisce a quell’inconscio di esprimere nella crescita psichica normale i propri contenuti.

Ma anche l’inconscio, il Sé ed i contenuti repressi dell’inconscio sono parte dello stesso essere.

Per cui opera nell’adulto e nella stessa psiche sia il carnefice che la sua vittima.

Talora l’adulto può trovare più “comodo” identificarsi nel potente carnefice lasciando all’altro, alla vittima, quello “scomodo” ruolo.

E così entrambi, inconsapevolmente  recitano nella vita , nel tragico palcoscenico della vita, le loro personalissime tragedie.

Il nazista razzista ha in sé stesso ferocemente represso l’odiato ebreo” ed a sua volta la sua incolpevole vittima può avere in sé stesso il suo feroce aguzzino.

Lo stesso si potrà dire per il feroce razzista del Klu Klus Klan che coltiva in sé il proprio odiato  “negro”.

E così l’omofobo ed ogni altra tragica figura umana che si identifichi con una sola parte del tremendo conflitto che la dilania.

E continuando con i conflitti intrapsichici severi taluni sostengono che alcune patologie oncologiche siano l’incarnazione nell’organismo di contenuti inconsci tanto intensamente repressi da non trovare altra via di espressione se non in quella severa patologia, in quel gravissimo “affioramento”.

Ciò è possibile ma al di là delle chiacchiere potrebbe essere molto utile affiancare alla terapia clinica una terapia analitica che tenti di portare a coscienza quei contenuti repressi “scaricando” nella coscienza stessa (il suo sfogo naturale) la grande energia che ha trovato nella patologia oncologica quella pericolosa via di espressione.

E si potrà scommettere che il malato oncologico , malgrado la gravità del suo stato, opporrà formidabili resistenze nei confronti della terapia analitica non riuscendo ad accettare quanto utile possa essere la sinergia tra le due così diverse forme di terapia.

Formidabili resistenze a palmare dimostrazione della esistenza di formidabili schermature.

E non è da escludere che analoghe resistenze vengano opposte perfino dal medico che quel paziente ha il dovere di aiutare a guarire.

 

 

 

 

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