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2/1/06

Il venerdi ceno in un self-service popolare in centro.

Mi piace la sua aria senza pretese, senza pose , senza grilli inutili.

Mi metto di solito in un tavolo quasi in ombra in fondo della grande sala cercando di rendermi il più anonimo possibile.

E più ci riesco più tranquillo sto.

Cerco perfino di mimetizzarmi nella tappezzeria del muro, strappata, a righine gialle  e blu.

Lontano dalla luce dei neon giallastri che vorrebbero tanto fare bistrot.

Finito di mangiare allungo le gambe sotto il tavolo e mi guardo attorno per guardare i tanti diversi corpi ruminare la pizza spaghetto fettina.

Una umanità dispersa solo raramente felice.

Sulla destra Veronica un filo di rossetto sulla faccia grigia e grinzosa.Mangia di fretta una insalatona scondita e poi va via strascicando i piedi.

Sul piccolo tavolo da due contro il muro c’è Aristide, un abituè

Parla da solo il viso rivolto verso il muro come se avesse accanto qualcuno.Spesso si accalora nel discorso e si incazza  e diventa feroce.

Parla in un dialetto stretto pressoché incomprensibile in più mangiandosi le parole.Si incazza parlando del nulla.

Molti non ci fanno più caso, alcuni esprimono stupore, qualcuno paura.

Quando il tono si fa troppo alto Germano uno dei cococo del ristorante si avvicina gentile e gli chiede di abbassare la voce.

Aristide è matto naturalmente ma non fa del male a nessuno  perso com’è in questo feroce scontro senza tregua con l’altro da sé.

Più in là tre ragazzi parlano con accento del Sud i capelli ritti di gel.

Sicuramente sono militari della vicina caserma , un nuovo ceto quello dei soldati di professione.

Sul tardi entra Arturo un ex barbone della mensa popolare.Ora ha trovato un lavoretto nelle piazze ed aiuta a montare le bancarelle al mattino e a smontarle la sera.Si può permettere una cena diversa da quella fatta di avanzi intossicati dalla rabbia serviti nella mensa dove andava prima.

Qualche coppietta qua  e là mangia la pizza allegra e una famigliola frena l’entusiasmo dei bambini per la novità del cenare fuori casa.

Forse dei turisti del week-end che vengono da lontano per visitare la città.

Al tavolo accanto si è seduto Yuki.Un giapponese minuto e tutto ossi che cerca una sua strada nell’arte.

Fa quadri e piccole sculture e mangia solo una ciotola di funghi conditi con del formaggio.Scambiamo due parole e sento nelle ossa il gelo della sua solitudine.

Non è un caso che costruisce piccole sculture di donne scarnificate e filiformi che mettono malinconia solo a guardarle.

Nel tavolo del corridoio a sinistra si siede uno giovane, il borsone del portatile a tracolla.Non se ne distingue uno dall’altro di questi giovani in carriera.Tutti con il cranio lucido, il vestito nero da beccamorti, le scarpe con la suola larga, il cellulare sempre in tiro.

Se sono più d’uno parlano solo di due cose, di lavoro e di figa.

Yuki intanto si è alzato salutandomi e guardando con disgusto (o forse con desiderio)  i tre o quattro piatti del mio vassoio.

La prossima volta quasi quasi gli offro la cena.

Annina è una delle quattro o cinque camerierine del locale.Raccoglie i vassoi lasciati sui tavoli da chi ha finito la cena e li porta in una stanza nascosta da un paravento.Ne escono rombi continui e rumori di scrosci d’acqua .Talora fragori di rovinose cadute di piatti  e bicchieri.

Ha belle gambe e non guarda in faccia nessuno.

Ora si è alzato anche Aristide ha un bel vestito di lino chiaro tutto spiegazzato.Si avvia con passo sicuro verso il bancone dove servono il caffè.

Sembra uno come tanti ed è invece corroso dai suoi demoni implacabili.

Entrano due ragazze americane e mangiano ciarliere e contente una pizza. Scoppiano di salute beate loro ed hanno fantastiche tette.

E’ un posto triste in fondo in fondo questo ristorante e non so perché continuo ad andarci.Forse perché non mi conosce nessuno e questo mi fa sentire come quando girovago nelle città diverse da quella dove abito.

Libero ed anonimo, anzi di più: invisibile.

 

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